“Parlate di mafia. A 30 anni dalla strage di via D’Amelio”

Il 19 luglio ricorrono i trent’anni della strage di via D’Amelio in cui trovò la morte il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti della scorta. In questa ricorrenza i gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia di Senato e Camera hanno organizzato a Palermo (San Paolo Palace Hotel, via Messina Marine 91, ore 16.30-19) un convegno per analizzare il rapporto tra i giudici antimafia e la comunicazione. Giustapponendo ai fatti di allora, le vicende di oggi, in cui spesso il rapporto tra le procure e i giornali invece devia verso derive personalistiche e/o di strumentalizzazione politica, a detrimento delle garanzie dell’imputato.

Le conclusioni saranno affidate al Presidente nazionale di FdI, Giorgia Meloni, mentre interverrano Pietro Grasso, ex Procuratore nazionale antimafia, Gianmarco Chiocci, direttore di Adn Kronos, Giampaolo Rossi, esperto di comunicazione, e Alberto Balboni, vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato.

I presidente dei gruppi di FdI al Senato e alla Camera, Luca Ciriani e Francesco Lollobrigida, insieme al capogruppo di FdI in Commissione Giustizia alla Camera, Carolina Varchi, e al sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, e al presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, terranno i saluti istituzionali. Modera Antonio Rapisarda, giornalista di Libero.

Il convegno vuole anche essere l’occasione per analizzare un ulteriore aspetto e cioè la costruzione dell’immaginario rispetto al fenomeno criminalità, perché è così che si edifica il sentire comune. Negli anni novanta “La Piovra”, produzione RAI, è stata un vero fenomeno di costume e esaltava le virtù di chi si dedicava anima e corpo alla lotta alla mafia. Oggi, invece, sembrano proporsi sempre più modelli negativi, si vedano serie TV come Gomorra o Romanzo Criminale. Come e quanto è cambiato l’immaginario e quanto si vira verso l’oblio e la minimizzazione del fenomeno mafioso anche nel mondo della cultura?.

La morte di Paolo Borsellino, dopo quella di Giovanni Falcone del maggio precedente, segna uno dei periodi più bui e difficili della lotta alla mafia. In vita in giudici del pool antimafia sono stati spesso accusati di essere sovraesposti, di essere eccessivamente presenzialisti, Borsellino, da Sciascia in un ormai famigerato articolo di giornale, venne definito “professionista dell’antimafia”. Veniva loro spesso contestato di comunicare eccessivamente, di fare spettacolo, di passare troppo tempo in tv e sui giornali.

Il rapporto che i giudici antimafia e in particolare Borsellino instaurarono con il mondo dei media e della comunicazione va tuttavia letto posizionandolo correttamente nel suo tempo. Negli anni ottanta si era scatenata la seconda guerra di mafia, per il controllo del territorio e per la supremazia nel traffico internazionale di stupefacenti. Si erano avvicendati eventi delittuosi di portata gravissima le faide fra le famiglie mafiose portarono centinaia di morti e moltissimi di questi furono tra gli uomini delle istituzioni. Tuttavia, “Cosa Nostra” sembrava una sconosciuta agli occhi del mondo, non esisteva. Il muro di omertà e di oblio che avvolgeva la mafia doveva essere abbattuto perché la mafia, prima ancora che un fenomeno criminale è un fatto culturale. Questo l’intento di Borsellino: parlare di mafia, parlarne per farla conoscere, comprendere e per combatterla. Era dunque necessario usare ogni mezzo di comunicazione per accendere i riflettori su un fenomeno che sino ad allora era rimasto sotto una colpevole coltre di silenzio. E’ in quest’ottica che occorre leggere quei fatti e trarre la lezione che lo stesso Borsellino ci diede quando disse “Parlate di Mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. però parlatene”.

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